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venerdì 12 febbraio 2010

Andiamo a vedere Taranto...

Ai primi di luglio 1925
Andiamo a vedere Taranto, "patria soave", diceva con enfasi un archeologo barese di vaglia, col quale mi trovai a fare la gita mesi fa. Ti mostrerò al Museo le statuette tanagrine di tipo prassitelico, i vasi con sopra dipinte le figure dei drammi ellenici, la leggenda di Paride... Ci faremo condurre da Quagliati al punto dell'acropoli, dove fu scoperta l'ara sacra a Venere armata, adorata dai tarentini...
Si mescevano, nel mio compagno, i ricordi oraziani a quelli della potenza di Roma, la musica di Aristòsseno si confondeva con la politica di Agatocle e di Pirro, di Dionigi siracusano. Io pensavo alla potenza dei barbari, Apuli, Salentini, Lucani e Sanniti, che contenne l'espansionismo ellenico, talchè lo Stato rimase nella città, e al singolare ambiente che permise poi lo sviluppo del pitagorismo di Archita; e mi domandavo che mai andavo a fare a Taranto, qual parola vi avrei appreso.
Dopo la sella di Gioia del Colle, a metà circa della Bari-Taranto, che si eleva a 360 metri, dividendo la Murgia di Alberobello da quella di Spinazzola-Santeramo, il pianoro ondulato del Barese, coperto fin lì di vegetazione arborea intensissima, cambia del tutto di aspetto. Se i colli vicini salgono a quote anche più alte, la ferrovia discende per una zona pianeggiante, più misera, quella delle grandi proprietà, delle grandi colture granarie, così poco redditizie, fino al bosco lunghissimo di San Basilio, tutto ad elci e querce più o meno dense. A destra spicca su di un rilievo dolcissimo un piccolo cono grigio scuro ed azzurrino: la Murgia di Marzagaglia, monte Montursi, o già monte Camplo con la cima di Santa Trinità. Anche vorrei distinguere a sinistra monte S. Elia e, dietro monte Arìmini, sulla Taranto-Martina, il gigante della provincia dello Jonio, che si innalza a ben 529 metri, ma già c'incassiamo in una forte depressione verso Castellaneta, appena a 246 metri, lungo una profonda gravina che, costeggiando a sinistra la ferrovia, va prima parallela, poi irregolare e sempre più minacciosa; finchè dopo un lungo giro ad arco sbuchiamo da una galleria sulla cerchia digradante del Tarentino tutto verde, con in fondo il mare azzurro, qualche punto bianco di vele e di alti monti della Calabria.
L'arditissimo ponte di ferro dimostra ora la gravina vertiginosa in tutta la sua orrida scabrosità, con pareti a picco, rosse e gialle di calcare, con speroni formidabili, cui non hanno ancora corroso le nostre piene paurose. Ma verso Palagianello anche le gravine si raggentiliscono: fra i grossi sassi erratici spiccano le chiome rotonde degli ulivi; più giù ancora sono microscopiche e del tutto alberate, con qua e là qualche piccolo masso interrato. Veramente l'arco azzurrino del golfo pare, anche oggi, l'idilliaca cornice fittizia dell'antica città democratica e commerciale, ricca di mollezze, di delizie, di bei monumenti più che di virtù militari. Ed anche da vicino il paesaggio, prima più mosso, si acqueta e si distende in ripiani con piccole gibbosità intensamente alberate di ulivi, qua e là steppose e cespugliose. L'occhio cerca le cittadine di tufo, Castellaneta, Palagianello, poi Massafra a sinistra su di una murgetta ancora brulla e, lontano a destra, appena sollevato sul piano, Palagiano con le sue case disperse; ogni altra asprezza carsica di sassi ruinosi e nudi è lontana, sparita; ogni cavità squallida di questi dintorni rupestri, appianata nel sorriso dell'azzurro, come se questa terra non possa conoscere lagrime. E gli ulivi secolari pare escano ora da un bagno, giovenilmente; e dovunque susini bianchi e peri.
Ecco la punta della Rondinella, ecco il mare quasi a portata di mano, azzurro viola, caldo e cupo, sin dalla prima mattina, quasi quanto quello di Napoli, "l'innamorato mare" dei sognatori e degli stranieri; ma si ricorda ancora di qualche minaccia con i suoi lampi, con le sue striature di verde brusche e livide. Dall'altra parte, l'altra punta del golfo, S. Vito, di là dalle isolette foranee ancora azzurrognole; e la dolcezza del giallo-oro del terreno cretaceo e tufaceo, e un che di roseo e di latteo fra mare e isole.
Illusione di Arcadia: queste cittadine lungo la linea cominciano invece a conoscere la gioia moderna del lavoro e la febbre della ricchezza, sebbene non tutte pulite, mi assicura uno del luogo. Ci sono le cave del tufo, richiesto da ogni parte; l'ulivo è curato a puntino; c'è soprattutto l'industria del pomodoro, e dovunque le piccole stazioni ne sono ingombre. Da Palagianello, che serve di sbocco anche a Palagiano, partono ogni giorno, tra luglio ed agosto, decine di carri di pomodoro fresco, e il prezzo è di duecento lire a quintale, e la primizia primaverile si vende per più, molto più. E ci sono sul luogo anche fabbriche per la conservazione del pomodoro in scatola. Peccato che io non possa discendere! Cose note però: il principio di quella vita economica sicura, che ci permetterà, fra cinquant'anni, di avere finalmente una nostra vita civile: la nostra speranza.
Ma qual è la vita di questa Taranto di oggi?...

...io torno indietro a gironzolare nella Taranto vecchia. Il tempo, come qui, per incostanza di clima, avviene spesso, si è bruscamente messo al buio, e dall'altezza del ponte girevole l'ampia conca ellittica del Mare Piccolo e l'apertura di quello Grande sono serrate da una fumosità bigia ed indistinta, caligine e navi da guerra; ed a me piace di trovarvi altro che il sorriso coagulato e i sospiri, le mollezze e i languori della letteratura di occasione.
La città antica è dunque posta tuttora nell'isola originaria, lanciata a sbarrare i due mari, come una vecchia nave sdrucita, in pieno vento, e chi vuole recarsi alla nuova, giunto dalla stazione al ponte di pietre a porta Napoli e passatolo, prende di solito a destra la magnifica via che si affaccia sul porto mercantile a Mar Grande, "dietro alle mura", donde spazia sul molo, sui velieri e i piroscafi, sulle isole, nell'infinito di cielo e mare, ovvero l'altra, anch'essa esterna, a sinistra, lungo Mar Piccolo, "la marina" brulicante del piccolo commercio marinesco, tuttora grondante e raggiante di acqua a piè del negrore delle case popolari. Il ponte di ferro è, dicevo, all'altro estremo, di passaggio sulla terra ferma, alla città nuova. Nello stesso senso della lunghezza l'isola è attraversata da via Duomo, l'antica via, larga pochi metri, dei palazzi secenteschi, dal budello della "via di mezzo", tagliato in tutti i sensi da centinaia di altri budellini, non più larghi, proprio così, di un metro.
Bisogna avere il coraggio di insinuarsi per questa rete inestricabile: nulla di simile è altrove, in Puglia, nè in Italia.

Tommaso Fiore - "Un Popolo di Formiche" - Ed. Palomar
(leggi anche "Ciclovagando nei centri storici" - "Centri storici in bici" dal blog "Ciclostile di Vita") http://nnatuzzi.blogspot.com/2008/10/ciclovagando-nei-centri-storici.html